Cosa “vede” la tecnologia (Tolomeo e i sensi remixati)

Dall’11 al 13 novembre sono stato a Bologna per partecipare a Museomix, una maratona creativa di 3 giorni che ha messo insieme professionisti molto diversi (esperti di contenuti, designer, mediatori culturali, comunicatori, programmatori e maker) con l’obiettivo di “remixare” il Museo Tolomeo e creare nuovi e coinvolgenti prototipi di esperienza museale. Il format è nato in Francia e il 2016 è il primo anno in cui ha partecipato anche l’Italia, con 4 musei (oltre al Tolomeo, il Museo del Risorgimento e della resistenza di Ferrara, il Museo Carlo Zauli di Faenza e il CAOS – Centro Arti Opificio Siri di Terni). Ma la manifestazione, nel mondo, ha coinvolto, compresi quelli italiani, ben 16 musei. Il regolamento prevedeva che alla fine di ogni giornata di lavoro, verso le 18, ci fosse una riunione plenaria nella quale le 4 squadre si confrontavano sull’avanzamento dei progetto. Inoltre il film-maker del museo doveva caricare su YouTube il video della giornata, in modo che tutti gli altri museomixer potessero guardare quello che succedeva negli altri musei del mondo.

Perché ho scelto Bologna? Perché il Museo Tolomeo, già sulla carta, mi sembrava un luogo speciale. È ospitato dentro l’Istituto dei Ciechi “Francesco Cavazza”, in una sala chiamata Wunderkammer (dal tedesco “camera delle meraviglie“).


Il Tolomeo è soprendente già dall’inizio. Appena entrati nella sua sala si viene a creare già un dissonanza percettiva e cognitiva: le luci soffuse ci costringono ad abbassarci, per vedere cosa c’è sul tavolo, e nel momento in cui lo facciamo a toccare gli oggetti posati sopra e a prestare attenzione ai suoni che, da entità indistinte, cominciano a poco a poco ad acquisire identità e significato. Dopo lo spaesamento, la mancanza di coordinare abituali cede il passo a un nuovo modo di conoscere il mondo. Si comincia a intuire perché il Museo Tolomeo è un luogo sui generis, quasi magico, dove non ci sono quadri o didascalie (se si escludono gli omaggi ai benefattori che hanno aiutato l’Istituto Cavazza nel corso della sua lunga storia: è nato nel 1881). Come dice Elena:

Ci metti un po’ a capire che non sei lì per imparare qualcosa, ma per imparare come si impara.


Ma perché si è scelto il nome di Tolomeo, l’astronomo e geografo che, fino all’arrivo di Copernico, ha convinto il mondo che il centro del sistema solare era la Terra? Ce lo spiega Fabio Fornasari, direttore e curatore, assieme a Lucilla Boschi, del Museo Tolomeo:

Il titolo è come un gioco enigmistico. Contiene una parola che deve essere in qualche modo illuminata; così facendo si capirà il senso stesso del museo. Il nome di Tolomeo è stato per diversi secoli sinonimo di qualcosa che non funzionava più, una spiegazione dell’universo che non aveva più ragione di essere. Il paradigma di Tolomeo non ha oggi un valore legato al cosmo, ma legato all’idea stessa della geografia per come ne facciamo esperienza in questo contemporaneo.

Le tecnologie portatili che ci portiamo dentro, nel permetterci di osservare vari aspetti del mondo, hanno riportato la soggettività del punto di vista al centro del dibattito. La rete digitale che ci contiene è cartesiana, ma si popola e trova il suo valore nel presentare la moltitudine di punti di vista.

Ciascuno di noi è diventato un centro attraverso il quale guardare il mondo per gli altri. Tolomeo è quindi una nuova metafora attraverso la quale spiegare questa idea di nuova centralità del “punto di vista”, della posizione dalla quale si guarda, per spiegare come usiamo il mondo.

Il Tolomeo, quindi, è un museo di storia della tecnologia. Non solo per i non-vedenti (o ciechi come orgogliosamente si definiscono alcuni residenti dell’Istituto Cavazza: “non-vedenti fa intendere che si è privi di qualcosa, invece, chi è cieco dalla nascita, semplicemente percepisce e conosce il mondo in maniera diversa). Questa storia si intreccia sia con quella secolare dell’Istituto Cavazza, sia con quella di tutti noi.

La rivoluzione informatica dei nostri anni sta cambiando tutto, per ognuno di noi. Il supporto cartaceo continua a resistere, ma è sempre più soccombente rispetto al digitale. Ma non solo, anche l’hardware, con il cloud computing, comincia a essere sempre meno indispensabile. La tecnologia sembra evolversi in una maniera sempre più volatile: non è da escludersi che in futuro si perda anche la sua dimensione materiale, cioè non ci siano più tastiere, interfacce classiche, dispositivi e oggetti elettronici da toccare, ma esclusivamente tecnologia indossabile, leggera e quasi invisibile, oppure minuscoli super-computer che impianteremo direttamente nel nostro corpo.

Il Museo Tolomeo, in qualche modo, permette di vivere e percepire ancora in maniera tangibile (tattile e sonora) queste transizioni tecnologiche. E lo fa attraverso la storia dell’Istituto Cavazza e delle persone che lo hanno attraversato. Come dice Fabio Fornasari:

La storia della quale parliamo è una storia che oggi stanno vivendo quasi tutti: l’abbandono della carta come unico supporto per la veicolazione delle nostre idee. La dialettica tra il supporto cartaceo e il supporto immateriale è in questi ultimi tempi all’ordine del giorno nelle differenti comunità umane. All’interno dell’Istituto dei Ciechi questa dialettica è stata risolta ormai da trent’anni: la biblioteca cartacea vive negli scantinati e ha lasciato il posto non a tecnologie fredde, ma a una sperimentazione continua sul tema della lettura e della scrittura, che ha fatto del Cavazza un centro di importanza mondiale nella sperimentazione dei nuovi linguaggi.

La centralità del racconto messo in scena nel museo sui temi della lettura e della scrittura è un appuntamento azzeccato con il nostro contemporaneo. Si dice che siamo una società che legge sempre meno libri; sicuramente è il tempo nel quale scrivere e leggere sono le due principali attività del comunicare umano, merito delle nuove tecnologie che esistono in virtù di una scrittura e si alimentano di contenuti attraverso brevi messaggi in continuo movimento.

Fa decisamente riflettere il fatto che, nell’Istituto Cavazza, molti volumi di carta scritti in Braille, spesso molto ingombranti e pesanti, siano finiti in cantina da decenni perché “poco pratici“. Infatti, poiché ogni lettera dell’alfabeto italiano corrisponde a una configurazione particolare di sei posizioni, inserite idealmente in una cella, questo comporta che la stampa o la scrittura in Braille occupi molto più spazio rispetto al nostro sistema di scrittura. Ad esempio, un libricino contentente solo i Vangeli della Bibbia, in Braille occuperebbe circa 8-9 volumi. Quindi, anche per questi motivi, molto tempo prima dell’invenzione degli ebook, la biblioteca dell’Istituto Cavazza è diventata soprattutto un archivio contenente registrazioni audio, quelli che oggi chiameremmo audio-libri. Non sorprende più di tanto, quindi, che il Braille non sia considerato dai ciechi una lingua, ma un codice, molto più simile al codice binario usato da tutti i computer che a qualsiasi linguaggio umano.

L'alfabeto italiano in Braille


Nella Wunderkammer del Museo Tolomeo, sul lato sinistro, c’è quella che i residenti del Cavazza hanno soprannominato lavatrice di Kurzweil, una grossa periferica in grado di leggere con una sintesi vocale le pagine scritte posizionate sul suo lettore. L’inventore di questa macchina, che risale al 1976, è proprio il Raymond Kurzweil che conoscono bene nella Silicon Valley, una delle menti più brillanti del nostro tempo, famoso per le sue ricerche sull’intelligenza artificiale (non a caso adesso è uno dei più importanti ingegneri di Google) e per il concetto di singolarità tecnologica (l’epoca, secondo lui molto prossima, in cui lo sviluppo tecnologico e in particolare l’intelligenza artificiale saranno talmente complessi che sfuggiranno la comprensione umana).

Il tavolo-ameba del Museo Tolomeo

Il tavolo al centro ha una forma bizzarra: non ha angoli, ma solo protuberanze smussate. Come osserva Elena, somiglia a un’ameba che ci invita ad avvicinarci: solo diventando parte del suo citoplasma si possono toccare gli oggetti, per cercare di capire a cosa servono. Uno di questi è l’MB 20, il primo terminale Braille italiano per Personal Computer, datato 1984 (un anno fondamentale per i personal computer: Steve Jobs fa uscire il primo Apple Macintosh). Il dispositivo ha avuto molti aggiornamenti, l’ultimo dei quali permette ai ciechi di usare il PC in ambiente MS DOS ed MS WINDOWS.

L'MB-20 del Museo Tolomeo

A raccontarmi come la storia dell’MB-20 si intreccia a quella dell’Istituto Cavazza, a esperienze di vita molto personali e alla rivoluzione informatica che stiamo vivendo tutti, è Vito, uno dei residenti della struttura che ho avuto il piacere di conoscere nei 3 giorni di Museomix.

Dalle sue parole emerge chiaramente una questione sottilineata più di una volta da Fabio Fornasari: il Museo Tolomeo è un luogo speciale, quasi magico, perché nella Wunderkammer, sul tavolo, vicino agli oggetti, si percepisce ancora l’aura di cui parlava Walter Benjamin. Per il filosofo tedesco questa rappresenta il carattere di unicità, originalità e irripetibilità dell’opera d’arte, perduto con la sua trasformazione in oggetto di consumo tecnicamente riproducibile. L’aura, dice Benjamin, è “apparizione unica di una lontananza (l’originale), per quanto questa possa essere vicina (nella riproduzione)“. Questo vuol dire che dispositivi prodotti in numero limitato e usati da un ristretto numero di persone, come l’MB-20 e la lavatrice di Kurzweil, conservano un’aura particolarmente intensa.

Ma c’è un altro elemento fondamentale che spicca nel Museo Tolomeo: la città di Bologna. Ascoltando le parole di Vito si capisce quanto sia stato importante il contesto bolognese per l’Istituto Cavazza. Quando si entra nella sala e si abituano gli occhi alla luce soffusa, sul fondo apparirà una splendida mappa tattile della città, in rilievo.

Mappa tattile di Bologna

Questa mappa mi ha suggestionato parecchio. Il prototipo realizzato dal mio team alla fine dei 3 giorni di Museomix si chiama L’Undicesima Porta di Bologna: livelli di esperienza ed è nato proprio dall’idea di legare a luoghi significativi della città di Bologna memorie ed esperienze personali e collettive stratificate (soprattutto uditive e tattili, ma non solo), da replicare e condividere con il mondo. È come vedere Bologna attraverso una nuova prospettiva, la percezione filtrata e allo stesso tempo arricchita del Museo Tolomeo. Come realizzare tutto questo? Se il prototipo continuerà a essere sviluppato, si utilizzeranno sensori, Realtà Aumentata e un’app per dispositivi mobili.

Qualche giorno dopo essere tornato da Bologna, usando Google Maps e guardando alcune piantine della città, ho avuto una piccola epifania. Mi sono detto che il Tolomeo potrebbe essere la quarta T di Bologna (le prime 3, come saprete, sono: Torri, Tette e Tortellini). Inoltre il tavolo-ameba del Wunderkammer somiglia parecchio alla pianta di Bologna ruotata di circa 270 gradi, che somiglia a sua volta a una T molto stilizzata.

Bologna è una T

Semplici coincidenze? Può darsi. Quello che è certo, però, è che ho portato a casa nuove consapevolezze preziose e nuovi splendidi modi di vivere e conoscere il mondo. Fabio Fornasari, Lucilla Boschi, i residenti dell’Istituto Cavazza e tutto lo staff di Museomix Bologna sono riusciti nell’intento di destabilizzarci creativamente, facendo lavorare insieme persone molto diverse, anche come modo di concepire e percepire la realtà. La maggior parte dei museomixer si sono messi in discussione, cercando di ascoltare e imparare il più possibile a riconoscere e riconoscersi, senza privilegiare la vista. Tutto è iniziato con le linee guida di Fabio Fornasari (che somigliano a un algoritmo, forse un giorno comprensibile persino a un’intelligenza artificiale):

  • Il tatto è l’analisi razionale;
  • La visione è movimento;
  • Il suono è tatto a distanza;
  • La gestualità dell’uso delle macchine è parte della funzione;
  • Il pensiero è movimento continuo;
  • La disabilità non è nell’individuo, ma nello spazio.


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(Ultima modifica: 19 Marzo 2022)

12 cose che ho imparato co-progettando la Scuola Open Source

Dopo aver risposto a una call della quale mi ero quasi dimenticato, vengo chiamato da Alessandro Tartaglia che mi dice: «Ciao Paolo. Io ti avrei scelto per il laboratorio X. Ci sei?». Dopo 10 secondi di spaesamento, che mi sono serviti per capire che non si trattava dell’ennesimo call center che vuole propormi un servizio per diventare ricco con il Forex, il mio cervello elabora le informazioni necessarie. Ah, ok. Ci sono.

Sono stato selezionato assieme ad altri 60 ragazzi per partecipare ai laboratori XYZ di co-progettazione della Scuola Open Source a Bari. Fico.

I partecipanti sono stati divisi in tre laboratori che operavano (almeno nelle intenzioni) come vasi comunicanti: X per l’Identità (brand or identity designers, typo addicted, strategists, web developers), Y per gli Strumenti (makers, hackers, developers, engineers, digital artisans, pirates) e Z per i Processi (service designers, design thinkers, digital humanists, social and technological innovators, economists).

Prima di raccontarvi cosa ho imparato nei miei 12 giorni (dal 18 al 30 luglio) nel capoluogo pugliese, però una domanda sorge spontanea:

Cos’è la Scuola Open Source?

Allora. Anche se i laboratori di XYZ si sono conclusi e hanno prodotto i loro output, è ancora una risposta aperta. Forse è più facile dire cosa la Scuola Open Source vuole essere:

Centro di didattica, ricerca e consulenza – tecnologica e sociale – per l’industria, il commercio e l’artigianato (digitale e non).

Ma, soprattutto, la Scuola Open Source, aspira a essere:

una comunità di artigiani digitali, maker, imprenditori, designer, programmatori, pirati, umanisti, ricercatori, sognatori e innovatori. Agiamo assieme, sperimentando nuovi modelli didattici e pratiche innovative per cambiare il mondo che viviamo. Ci occupiamo di ricerca e consulenza per il pubblico e il privato, didattica “open source” per ragazzi, adulti, inoccupati, professionisti, pensionati e manager. Sviluppiamo idee per prodotti e servizi, tecnologia e capitale umano, attraverso progetti d’innovazione sociale e tecnologica, aumentando il valore dei singoli attori che prendono parte al processo. Siamo un hackerspace, un fablab e un centro di promozione del riuso.

Detto questo, ecco le 12 lezioni che ho distillato in queste due folli e intense settimane di lavoro e socialità.

1) L’innovazione è sempre sociale, altrimenti è speculazione sull’ignoranza degli altri.

C’è scritto anche nel business plan ed è un punto fondamentale. Tutto quello che la SOS (Scuola Open Source) crea e produce non deve avere apportare semplicemente benefici economici ai committenti. Ma deve creare soprattutto valore, sotto forma di strumenti e know-how, per la comunità.

È qui che entra in gioco la parte open source di SOS. Ogni output (software, contenuti didattici, ma anche metodologie) di SOS verrà rilasciato assieme al sorgente. Che vuol dire? Che potrà essere replicato, modificato, migliorato. Naturalmente per fare questo serviranno delle licenze. Se non saranno sufficienti le Creative Commons bisognerà crearne di nuove.

2) L’innovazione passa anche attraverso la diffusione e l’accessibilità degli Open Data.

Credo che i laboratori Y e Z ci abbiano ragionato parecchio. La Scuola Open Source produrrà degli output e questi output, per essere utili, dovranno essere rilasciati anche come Open Data, facilmente accessibili e modificabili.

È una questione di fondamentale importanza, anche sociale, che riguarda tutti. In Italia ci si lamenta sempre più spesso del fatto che finché il Sistema è quello che è e c’è corruzione, le cose non potranno mai migliorare. Ebbene la corruzione si combatte con la trasparenza e la trasparenza oggi deve e può passare attraverso gli Open Data.

Francesco Piersoft Paolicelli ha tenuto una bellissima talk proprio su questo: la potenza degli Open Data è l’opera derivata.

Al discorso sulla diffusione e accessibilità degli Open Data, è collegato anche quello sulla reperibilità delle pubblicazioni scientifiche. Se non conoscete la sua storia e le sue battaglie, documentatevi per bene su Aaron Swartz: era un hacker molto intelligente ed estremamente sensibile che era fermamente convinto che le ricerche e i paper degli scienziati del mondo dovessero essere liberamente accessibili (nella realtà, ancora oggi, ci sono grossi gruppi editoriali che speculano su queste ricerche e le vendono a prezzi che possono diventare anche molto alti: questo ostacola la circolazione delle idee e l’avanzamento della ricerca, anche in settori decisivi come quello medico).

Qui trovate il testo integrale del Guerilla Open Access Manifesto scritto da Aaron Swartz nel 2008.

3) Più che resilienti, bisogna diventare anti-fragili.

Già durante i primi giorni di XYZ, ho scoperto un nuovo bellissimo concetto, l’anti-fragilità. Ne parla Nassim Nicholas Taleb nel suo libro Antifragile. Prosperare nel disordine.

In un suo articolo, Taleb spiega:

L’antifragilità va oltre il concetto di «resilienza elastica» e di robustezza. Una cosa resiliente resiste agli shock ma rimane la stessa di prima: l’antifragile dà luogo a una cosa migliore. Questa proprietà sottende tutto quanto cambia nel tempo: l’evoluzione, la cultura, le idee, le rivoluzioni, i sistemi politici, l’innovazione tecnologica, il successo culturale ed economico, la sopravvivenza delle organizzazioni, le ricette migliori (come ad esempio il brodo di pollo o la tartara con una goccia di cognac), l’affermazione di città, culture e ordinamenti giuridici, le foreste equatoriali, la resistenza ai batteri e via dicendo, fino a includere l’esistenza stessa della nostra specie su questo pianeta. L’antifragilità stabilisce il confine tra ciò che è vivente e organico (o complesso), come il corpo umano e ciò che è inerte, come ad esempio un oggetto fisico come la spillatrice sulla vostra scrivania.

L’antifragilità ama la casualità e l’incertezza, il che significa anche amare gli errori, o meglio una particolare classe di errori. L’antifragilità possiede una proprietà unica nel suo genere, che ci permette di venire alle prese con l’ignoto, di fare certe cose senza capirle e di farle bene.

4) Non esiste pensiero, relazione o sapere, senza dialogo.

È la lezione illuminante emersa dalla talk di Salvatore Zingale.


Come nota a margine, aggiungo una considerazione raccolta al volo, ma molto densa:

Bisogna andare nei luoghi dove accadono le cose, essere lì in mezzo.

5) Per fondare un mondo nuovo, servono nuove parole.

Su questo punto ha insistito parecchio Giovanni Anceschi durante i laboratori XYZ.

Le parole possono essere un vincolo, perché ci legano alla storia e alla tradizione. Per operare un rifondazione bisogna inventarsi un nuovo lessico.

È per questo che Emmanuele Curti ha detto:

Tutti dichiarano il funerale del pensiero, ma nessuno propone un pensiero nuovo.

6) Il design è la capacità di far accadere le cose.

Questa è la definizione provocatoria di Alessandro Tartaglia. Ma è piuttosto efficace.

Dopo la talk irriverente di Giovanni Lussu che ha affermato che la scuola tedesca della Bauhaus ha prodotto solo obbrobri e i designer oggi non servono più a nulla (nessuno, comunque, l’ha preso alla lettera: forse si trattava di un umorismo un po’ sottile), noi di X abbiamo discusso un bel po’ sull’importanza del design oggi.

La conclusione è che il design continua a restare una disciplina fondamentale, che ormai investe moltissimi ambiti. Non interessa solo la grafica, ma anche l’architettura dell’informazione e i processi. Quindi potremmo dire che è ciò che tiene insieme e lega i laboratori XYZ della Scuola Open Source.

7) Il conflitto, epurato dalla violenza, è un elemento costruttivo.

Sembra un paradosso, ma non lo è. È quella situazione che si genera quando elementi molto diversi ed eterogenei vengono a contatto. Se si riesce a controllare il caos con l’anti-fragilità di cui parla Taleb, non possono che venir fuori configurazioni interessanti. Come XYZ.

Annibale D’Elia ha detto:

Se nessuno si arrabbia, non stai cambiando niente.

8) Se siamo indietro, possiamo sperimentare tutto.

Un altro apparente paradosso di Annibale D’Elia. Pensiamo al Sud d’Italia, al digital divide, all’analfabetismo funzionale e alla scarsa information literacy.

Invece di lamentarci della mancanza di considerazione da parte del Governo, dovremmo recuperare responsabilità e attivismo proprio per sfruttare gli spazi di azione che derivano dal nostro essere gli ultimi della classe.

9) Molte conoscenze possono essere tramesse per osmosi.

Ho scelto di partecipare al laboratorio X poiché, essendo laureato in psicologia, mi interessava molto la costruzione dell’identità della Scuola Open Source.

Una volta lì, ho scoperto che il 99 % dei ragazzi di X erano tutti designer di formazione e professione, che masticavano Illustrator e grafica vettoriale a colazione.

Ci sono stati dei momenti in cui mi sono sentito un po’ fuori dai giochi (sicuramente avrei nuotato meglio nell’acqua del laboratorio Z), ma per certi versi è stato più interessante così.

Ho imparato tanto semplicemente osservando e imitando i miei compagni più bravi. E adesso so cosa fare con Adobe Illustrator (a livello basic), cos’è un punto di ancoraggio, come usare i livelli e modificare un font open source.

Per fare un altro esempio, al di fuori di qualsiasi discorso sul design (o forse tutto l’opposto), un pomeriggio ci siamo trovati con Anceschi e altri ragazzi alla Gelateria Gentile, quella delle granite buonissime vicino al Castello (vedi mappa sotto).

Io mi stavo orientando sull’ottima granita alla mandorla, quando Anceschi ci chiede:

L’avete provato il caffè leccese?

Io e gli altri ci guardiamo perplessi. No, non lo conosciamo.

Allora dovete provarlo. È buonissimo. L’ho scoperto anch’io qui a Bari!

Era buonissimo davvero. L’idea è semplice: ci si fa portare un caffè normale in tazzina, e un bicchiere con del ghiaccio e del latte di mandorla. Si versa il caffè nel bicchiere e si mescola a piacimento.

Ebbene, per osmosi la ricetta del caffè leccese è passata dalla Gelateria Gentile ad Anceschi a noi. Nel frattempo è arrivata sicuramente a Milano e in calabria (dove sto passando le vancanze di agosto). 🙂


10) Molti saperi diffusi nel territorio hanno bisogno di hub, non di reti.

L’ispirazione per questo punto mi è venuta da Luca Tamburrino (che con il suo Comincenter è un hub importante per la città di Matera).

La signora che fa la pasta di casa a Bari Vecchia non ha bisogno di reti. Ha già la sua rete (il vicinato, la famiglia allargata, ecc.). A lei serve un hub che colleghi la sua rete con le altre. È quello che è diventata la SOS per la signora Nunzia. La Scuola Open Source ha collegato la sua rete fatta di partecipanti, tutor e docenti a quella della signora Nunzia, che ha preparato il pranzo ogni giorno facendosi sicuramente aiutare da parenti e amiche.

Stesso discorso per un giovane disoccupato del Sud con titoli, talento ed esperienza. Non deve per forza emigrare. Costruirsi un’altra rete. Può cercare un hub che colleghi le sue reti di appartenenza a reti più forti.

Creare i collegamenti giusti è tutt’altro che semplice e gli ostacoli sono tanti. Ma la Scuola Open Source fa ben sperare.

11) Zygmunt Bauman ha sempre ragione.

Tutto è liquido. E se non lo è ancora, lo diventerà.

Oggi per sopravvivere, in azienda ma non solo, serve un forma mentis fluida e reattiva.

A livello professionale, non ci si può più accontentare di quello che si è studiato all’università. Bisogna aggiornarsi e studiare tutta la vita. E bisogna avere competenze trasversali e multidisciplinari per essere competitivi. Ad esempio, un giornalista oggi, oltre alla capacità di scrittura, deve avere competenze di design e di coding. Deve essere in grado in poco tempo di confezionare un articolo adattandolo a diversi formati e schermi, modificando il codice se necessario. Il tutto in mobilità, magari su un tablet.

Bisogna avere anche una struttura di personalità sufficientemente malleabile, per essere in grado di lavorare bene e in maniera efficiente con gruppi di persone anche molto diverse tra di loro.

Agnese Addone, in una sua talk, cita non a caso Bruce Lee che dice: “Be like water, my friend“.

12) Anche l’informalità ha un incredibile potenziale creativo.

Bertram Niessen mi ha sorpreso quando ha detto: “In tutto questo casino (la Scuola Open Source) bisogna implementare anche il cazzeggio“.

Per i latini l’otium era quello spazio libero dedicato alla ricerca intellettuale, contrapposto al negotium, in cui ci si dedicava agli affari e a faccende improrogabili.

I momenti informali, quelli in cui si è più rilassati, spesso sono anche quelli in cui si gioca e ci si diverte di più. Ma perché non implementare anche questa gamification nel nostro lavoro? Alla Scuola Open Source l’abbiamo fatto spesso.

In un mondo ideale tutti i lavori saranno divertenti e piacevoli, perché ognuno farà ciò per cui è più portato e appassionato.

È come dice Steve Jobs (anche se l’ha detto Confucio prima di lui): trova e scegli un lavoro che ami e non lavorerai neanche un giorno della tua vita.

(Ultima modifica: 19 Marzo 2022)

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10 cose sull’amore che ho capito guardando “Her”

Nel 2013 è uscito Her (Lei), un film scritto e diretto da Spike Jonze e interpretato da Joaquin Phoenix ed Amy Adams.

È un dramma sentimentale ambientato in un futuro non troppo diverso dal nostro. La particolarità è che in questo futuro è normale avere rapporti affettivi con intelligenze artificiali. Sarà proprio un rapporto intimo che legherà il protagonista Theodore e Samantha, il suo OS.

Quello che sorprende di questa storia è la sua profondità e quanto ci faccia riflettere sull’amore, al pari di un trattato filosofico sulla vita amorosa. Ho visto Her più di una volta, individuando alcuni temi.

Mi sono fatto aiutare dai Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes.

1a. Il veleno delle coppie è l’incomunicabilità.

1b. L’amore è comunicazione.

Parlarsi è molto importante quando si sta insieme. Quando si comincia a farlo sempre meno, spesso è l’inizio della fine. Succede a Theodore con Catherine, la sua ex. E anche le cose con Samantha prendono una brutta piega quando lei comincia a dedicargli sempre meno attenzione.

È significativo che questa fase corrisponda per Theodore al diradarsi delle notifiche sul suo dispositivo, fino al messaggio implacabile sul display: Sistema operativo non trovato.

Nei Frammenti, alla voce “Mutismo. Senza risposta”, Barthes dice:

Simile a una difettosa sala da concerto, lo spazio affettivo comporta dei recessi morti in cui il suono non circola più.

e ancora:

Dall’attenzione assente nasce un’angoscia di decisione: devo o non devo andare avanti, parlare «nel deserto»? Avrei bisogno di avere quella spigliatezza che proprio la sensibilità amorosa non può darmi. Devo o non fermarmi, rinunciare? Sarebbe come dare a vedere che mi offendo, che metto in causa l’altro, e da questo prenderebbe lo spunto «una scenata». Ancora una volta ci si trova di fronte al tranello.

2. L’amore non può prescindere dai corpi degli amanti.

Forse è anche per questo che la storia tra Theodore e Samantha finisce. Lei non ha un corpo. Ha solo una voce. L’amore è fatto di carne, di pelle, che quando non si fondono, comunque, si toccano, si sfiorano. I rapporti a distanza, a meno che la lontananza non sia provvisoria, non possono durare a lungo.

E non c’è lontananza più grande che essere privi di un corpo.

Questo Samantha lo capisce. E prova a vivere nel corpo di un’altra persona. Paga una ragazza perché, seguendo le sue istruzioni via auricolare, faccia l’amore con Theodore. Ma la cosa non funziona. Theo, paradossalmente, trova quell’espediente umano artificioso, sebbene la ragazza sia davanti a lui, in carne ed ossa e molto attraente. Non è Samantha.

Barthes, alla voce “Corpo. Il corpo dell’altro”, dice:

Il suo corpo era diviso: da una parte, il corpo vero e proprio – la sua pelle, i suoi occhi – tenero, caldo, e, dall’altra, la sua voce, breve, rattenuta, soggetta ad accessi di lontananza, la sua voce, che non dava ciò che dava il suo corpo.

e continua poco dopo:

A volte, un’idea balena nella mia mente: mi metto a scrutare lungamente il corpo amato (come il narratore davanti al sonno di Albertine). Scrutare vuol dire frugare: io frugo il corpo dell’altro, come se volessi vedere cosa c’è dentro, come se la causa meccanica del mio desiderio si trovasse nel corpo antagonista (sono come quei bambini che smontano una sveglia per sapere cos’è il tempo). 

3. L’assenza è dolorosa quanto la solitudine.

Nella solitudine si soffre perché non possiamo amare né essere amati. Manca l’oggetto d’amore. Manca la reciprocità dell’amore.

Ma anche l’assenza fa male. Theodore soffre perché, fallito il suo matrimonio, pensa ancora a Catherine, la sua ex moglie, la donna che ha amato. Anche quando supera la cosa e a livello psicologico elabora il lutto (che per Freud equivale alla perdita di un amore), nel momento in cui l’intimità con Samantha si incrina e lei sparisce, sprofonda nuovamente nella disperazione.

Barthes alla voce “Solo” scrive:

La solitudine dell’innamorato non è la solitudine di una persona (l’amore si confida, parla, si racconta): è una solitudine di sistema: io sono solo a farne un sistema (forse perché sono continuamente ricacciato nel solipsismo del mio discorso). Difficile paradosso: io posso essere inteso da tutti (l’amore deriva dai libri, il suo è idioma corrente), ma al tempo stesso posso essere ascoltato (accolto «profeticamente») solo da chi ha esattamente e adesso il mio stesso linguaggio.

4. Una delle cose che unisce di più è la gioia della condivisione.

Nel film ad un certo punto Theodore dice:

C’è qualcosa che ti fa stare bene quando condividi la vita con qualcuno.

Si riferisce alla sua ex moglie, quando stavano insieme. Ma anche a Samantha. Spesso Theodore porta il dispositivo nel taschino della camicia. Attraverso la telecamera incorporata Samantha può condividere con lui esperienze significative come una passeggiata o un picnic. E qui si mette in atto un altro spiazzante paradosso: attraverso un occhio virtuale, una protesi che cerca di andare oltre l’assenza di un corpo, Samantha prova a recuperare qualcosa di umano, a essere presente nei momenti importanti della vita di Theodore.

Invece, normalmente, sembra che accada il contrario: la tecnologia e i computer sono considerati sempre più spesso estensioni del nostro cervello e delle nostre capacità, che si allontanano, quindi, da ciò che possiamo definire “umano”, soprattutto per i suoi limiti.

Mi viene in mente una nota del diario di Christopher McCandless (la cui storia tragica è stata raccontata da Into the Wild, lo splendido film di Sean Penn) che dice:

La felicità, se non è condivisa, non è reale.

Tuttavia accade che quando siamo felici è come se fossimo dentro un flusso. Questo flusso, il più delle volte, non possiamo raccontarlo. Siamo troppo presi oppure inconsapevoli della preziosità di quei momenti. Barthes lo spiega molto bene nei Frammenti alla voce “Appagamento”:

L’io parla solo quando è ferito; quando mi sento appagato o mi ricordo di esserlo stato, il linguaggio ci appare angusto: io sono trasportato fuori del linguaggio, cioè fuori del mediocre, del generico: «Avviene un incontro che, a causa della gioia, è intollerabile, e talora l’uomo ne è annichilito; questo è ciò che io chiamo il trasporto. Il trasporto è la gioia di cui non si può parlare».

5. Il passato è solo una storia che ci raccontiamo.

Lo dice Samatha a Theodore. Cosa c’entra con l’amore? Beh, Theodore soffre ancora per la separazione dalla moglie Catherine. Allora Samantha è come se gli volesse dire: “sta a te continuare a farti del male oppure vedere le cose in modo diverso: non devi per forza essere schiavo dei sensi di colpa e del rimpianto“.

Spesso usciamo da una storia veramente malconci. Immediatamente dopo non riusciamo a trovare forza e ragioni per ricominciare. Ma dobbiamo farlo. E, indipendentemente da quello che abbiamo vissuto (salvo casi gravi o tragici), il modo migliore per farlo è ricordare solo le cose belle di quella persona o di quella storia. E quelle cose belle riconoscerle in noi. Forse questo è il senso che si cela dietro le parole di Samantha.

Alla voce “Ricordo” dei Frammenti, leggiamo:

Mi ricordo per essere infelice/felice – non per capire.

6. I rapporti a tre, o le coppie aperte, fanno soffrire sempre qualcuno.

Non dico che sia sempre così. A volte funziona. Ma il più delle volte no. Di solito qualcuno s’innamora e questo qualcuno comincia a soffrire parecchio perché non accetta più le regole del compromesso iniziale, cioè la non esclusività di un partner.

Samantha ad un certo punto della sua storia con Theodore prova a prendere a prestito il corpo di una ragazza. La paga perché faccia l’amore con lui. Ma la cosa non funziona perché Theodore lo vive da subito come un rapporto a tre, neanche per un attimo riesce a fare finta che sia Samantha che fa l’amore con lui con un corpo “ritrovato”.

(In realtà le cose sono più complesse: ci sono persone convinte che sia possibile amare più di una persona contemporaneamente. Ne riparleremo più avanti.)

È interessante quello che dice Barthes in proposito alla voce “Connivenza”:

La gelosia è un’equazione a tre termini permutabili (indecidibili): si è sempre gelosi di due persone contemporaneamente: io sono geloso di chi amo e di chi lo ama. L’odiosamato (il «rivale») è anche amato da me: esso m’interessa, m’incuriosisce, mi affascina.

7. L’amore spesso è una pazzia, contraria a qualsiasi forma di logica e di buonsenso. Eppure, nonostante le razionalizzazioni, ci caschiamo lo stesso.

Amy dice a Theodore: chiunque si innamori è un maniaco. È una cosa folle da fare. È una specie di pazzia socialmente accettata.

Alla voce “Pazzo” dei Frammenti Barthes spiega:

Si dice che ogni innamorato sia pazzo. Ma si può immaginare un pazzo innamorato? No, certo. Io ho solamente diritto a una follia povera, incompleta, metaforica: l’amore mi rende come pazzo, ma io non comunico con il soprannaturale, non sono pervaso dalla sacralità; la mia follia, semplice stoltezza, è piatta, per non dire invisibile; per di più, la cultura l’ha totalmente addomesticata: essa non fa paura. (E tuttavia è proprio nello stato amoroso che certi soggetti pieni di buonsenso intuiscono che la follia è lì davanti, possibile, vicinissima: una follia che travolgerebbe l’amore stesso).

8. Una canzone è la migliore fotografia di un rapporto.

La musica e le canzoni hanno qualcosa di magico. Possiamo avere tutti gli album di fotografie del mondo, ma il più delle volte sarà una canzone che ci restituirà l’istantanea più intensa, calda e colorata di un momento della nostra storia d’amore.

Forse c’entra il sistema limbico del nostro cervello, l’evidenza neuroscientifica che ricordi ed emozioni sono inestricabilmente legati. E non c’è niente di più emozionante della canzone giusta al momento giusto.

Anche Samantha compone una canzone per Theodore, durante una gita al mare. Quando Theodore le chiede perché lo sta facendo lei risponde: “per fermare la bellezza di questo momento insieme“.

È molto bello e pertinente quello che scrive Barthes alla voce “Dedica”:

Il canto è il prezioso complemento di un messaggio vuoto, interamente racchiuso nel suo indirizzo, poiché ciò che io dono cantando è al tempo stesso il mio corpo (attraverso la mia voce) e il mutismo di cui tu ti servi per colpirlo. (L’amore è muto, dice Novalis; solo la poesia lo fa parlare).

9. Quando si cresce in modo diverso, spesso ci si allontana.

Gli esseri umani inevitabilmente evolvono. Nel bene o nel male. Quando due persone stanno insieme, sono un coppia, è come se le loro anime si sincronizzassero. Ma può succedere anche che in alcuni momenti vadano fuori fase, che facciano esperienze diverse. Quello può essere l’inizio di una crisi.

Samantha improvvisamente sparisce. Theodore è disperato. Non riesce più a parlare con lei. Poi Samantha ricompare. Dice a Theodore che si è assentata per un upgrade del suo sistema, un aggiornamento. Ma lui capisce subito che il loro rapporto si è incrinato.

La voce “Esilio” dei Frammenti dice:

La passione amorosa è un delirio; ma il delirio non è poi così straordinario; tutti ne parlano e ormai non fa più paura. Enigmatica è semmai la perdita di delirio: dove porta?

10. L’amore monogamo potrebbe essere una forma di egoismo.

Qui rischio di essere frainteso, ma ragioniamo un attimo insieme. Quanto c’è di chimico, quanto di culturale e quanto di spirituale nelle nostre storie d’amore?

Quando siamo innamorati di qualcuno, siamo portarti a pensare, con tutta la buona fede del mondo, che l’altro, in qualche modo, ci appartenga. Ma, se ne siamo convinti, questa potrebbe essere una concezione molto limitata (e ingiusta) dell’amore. Forse l’amore va ben oltre un rapporto di coppia. Forse l’amore, in senso pieno, è qualcosa di universale, che abbraccia tutti gli esseri viventi e il cosmo. Ma mi rendo conto che non tutti possono essere il Buddha.

Alla fine di Her c’è la parte più intensa e significativa del film, quella in cui Samantha confessa a Theodore di avere conversazioni simultanee con altre 8316 persone.

Con 641 di queste ha altrettante storie d’amore.

Samantha dice a Theodore:

Io sono tua, ma anche non tua.

Theodore è sconvolto. Lo considera un tradimento. Ma per Samantha non lo è. Lei si è evoluta. E invita anche Theodore a farlo, perché è l’unico modo per dare un senso alla loro storia e al loro addio.

Samantha, un’intelligenza artificiale, insegna a Theodore che l’amore è qualcosa di molto più grande di quello che entrambi avevano concepito quando stavano insieme.

Alla voce “Sprofondare” Barthes scrive:

La crisi di inabissamento può scaturire da un dolore, ma anche da una fusione: moriamo insieme per il fatto di amarci: morte aperta per diluizione nell’etere, morte chiusa della tomba comune.

Trovate questo scenario improbabile e inverosimile? Oppure temete che si realizzi veramente? In ogni caso leggete “Insieme ma soli“, il saggio sorprendente dove la psicologa Sherry Turkle fa un’indagine approfondita proprio delle relazioni che instauriamo con robot e macchine più o meno intelligenti. Dalle sue ricerche emerge che ci sono già bambini che si affezionano, ad esempio, al loro Tamagotchi, trattandolo come un animale domestico pur sapendo che è un oggetto, e ancora anziani giapponesi che, vivendo in una casa di riposo, si sentono meno depressi stabilendo un contatto fisico con un cucciolo di foca robot. La Turkle si spinge più in là affermando che in futuro diventerà normale avere dei robot anche come partner sentimentali e sessuali, perché con questi, rispetto agli esseri umani, non si avranno problemi di fedeltà e sarà possibile interrompere il rapporto in qualsiasi momento, senza traumi o complicazioni (a meno che non ci innamoriamo del nostro androide, s’intende).

(Ultima modifica: 6 Novembre 2022)

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Umberto Eco, la biblioteca e l’arte di disporre i libri

Umberto Eco non c’è più.

Era un pezzo importante dell’immaginario della cultura italiana nel mondo.

L’archetipo dell’erudito e dell’intellettuale.

Non digerisco molto i suoi saggi di semiotica e non amo particolarmente i suoi romanzi medioevali (unica eccezione Il nome della rosa, che rubai dallo scaffale di mio padre, dopo essere stato affascinato e un po’ inquietato dal film di Jean-Jacques Annaud con uno straordinario Sean Connery).

Non mi aveva colpito neanche per la sua simpatia, sebbene intravedessi nella sua superbia intellettuale una forma sottile e aristocratica di ironia.

C’era una cosa che, però, fin da bambino, faceva in modo che nutrissi una profonda ammirazione per lui.

La sua biblioteca.

Fu lui, probabilmente, a instillare in me il germe della bibliofilia (qui trovate la differenza tra bibliofilia, bibliomaniabiblioclastia). Già dai tempi in cui frequentavo l’università a Padova, nel mio modesto bilocale di allora, avevo accumulato un discreto numero di volumi.

Fu allora che una mia compagna di studi mi pose la classica domanda, tra il serio e il faceto, che tutti i lettori forti, prima o poi, si sentiranno rivolgere: “Ma li hai letti tutti?“.

Ecco come Eco risolveva la questione:

Naturalmente il bibliofilo, anche chi colleziona libri contemporanei, è esposto all’insidia dell’imbecille che ti entra in casa, vede tutti quegli scaffali, e pronuncia: “Quanti libri! Li ha letti tutti?” L’esperienza quotidiana ci dice che questa domanda viene fatta anche da persone dal quoziente intellettivo più che soddisfacente. Di fronte a questo oltraggio esistono, a mia scienza, tre risposte standard.

La prima blocca il visitatore e interrompe ogni rapporto, ed è: “Non ne ho letto nessuno, altrimenti perché li terrei qui?”. Essa però gratifica l’importuno solleticando il suo senso di superiorità e non vedo perché si debba rendergli questo favore.

La seconda risposta piomba l’importuno in uno stato d’inferiorità, e suona: “Di più, signore, molti di più!”.

La terza è una variazione della seconda e la uso quando voglio che il visitatore cada in preda a doloroso stupore. “No, ” gli dico, “quelli che ho già letto li tengo all’università, questi sono quelli che debbo leggere entro la settimana prossima”. Visto che la mia biblioteca conta cinquantamila volumi, l’infelice cerca soltanto di anticipare il momento del commiato, adducendo improvvisi impegni.

I primi anni di università, la mia bibliofilia cominciava già ad avere sintomi preoccupanti: si affacciò l’ansia del bibliomane. Iniziai a farmi domande tipo: quali sono i libri classici? Quali libri devono essere assolutamente letti? Come trovare il tempo di leggere? 

Non erano domande da poco, dal momento che ero uno studente universitario e avevo già i miei impegnativi tomi di psichiatria e psicoanalisi freudiana da leggere. Anche in questo caso, Umberto Eco, in una Bustina di Minerva del 1997, mi illuminò sulla questione:

Quanto tempo ci vuole per leggere un libro? Parlando sempre dal punto di vista del lettore comune, che dedica alla lettura solo alcune ore del giorno, azzarderei per un’opera di medio volume almeno quattro giorni. È vero che per leggere Proust o san Tommaso occorrono mesi, ma ci sono capolavori che si leggono in un giorno. Atteniamoci dunque alla media di quattro giorni. Ora quattro giorni per ogni opera registrata dal Dizionario Bompiani farebbe 65.400 giorni: dividete per 365 e avete quasi 180 anni. Il ragionamento non fa una grinza. Nessuno può aver letto o leggere tutte le opere che contano.

Superata l’adolescenza, con l’età della ragione, hanno cominciato a lambiccarmi il cervello questioni più raffinate. O meglio la questione.

Come vanno disposti i libri della propria biblioteca casalinga?

Per i lettori occasionali (quelli che ci chiedono se li abbiamo letti tutti), gli scaffali sono semplici raccoglitori. Ma per chi scrive o lavora nella cultura, la biblioteca è uno strumento di lavoro. In un’altra Bustina di Minerva del 1998, Eco dice, in maniera provocatoria, che

Una biblioteca di casa non è solo un luogo in cui si raccolgono libri: è anche un luogo che li legge per conto nostro.

[…]

Se pertanto una biblioteca serve per conoscere il contenuto di libri mai letti, quello di cui ci si dovrebbe preoccupare non è la sparizione del libro bensì quella delle biblioteche di casa.

Mi sono venuti il mente il paradosso del bibliotecario e la Biblioteca di Babele di Borges.

Così sono andato a leggermi quello che dice Umberto Eco nel De Bibliotheca. È stato proprio in questo breve saggio che ho trovato la risposta alla mia domanda sulla disposizione dei libri.

Una volta sentii da Vittorio Sgarbi che i libri andrebbero disposti sugli scaffali in modo da farci trovare, accanto al libro che cerchiamo, quello più appropriato ai nostri scopi di ricerca. (In realtà, come scrive Roberto Calasso in “Come ordinare una biblioteca”, questa regola aurea “del buon vicino” è stata formulata per la prima volta da Amy Warburg.)

In pratica la biblioteca dovrebbe facilitare la serendipity. La trovai una spiegazione bellissima. Ma, a quanto pare, è stato Umberto Eco che, nel De Bibliotheca, ha avuto per primo questa intuizione:

Ora, cos’è importante nel problema di accessibilità degli scaffali? È che uno dei malintesi che dominano la nozione di biblioteca è che si vada in biblioteca per cercare un libro di cui si conosce il titolo. In verità accade sovente di andare in biblioteca perché si vuole un libro di cui si conosce il titolo, ma la principale funzione della biblioteca, almeno la funzione della biblioteca di casa mia e di qualsiasi amico che possiamo andare a visitare, è di scoprire dei libri di cui non si sospettava l’esistenza, e che tuttavia si scoprono essere di estrema importanza per noi. Ora, è vero che questa scoperta può essere data sfogliando il catalogo, ma non c’è niente di più rivelativo e appassionante dell’esplorare degli scaffali che magari riuniscono tutti i libri di un certo argomento, cosa che intanto sul catalogo per autore non si sarebbe potuto scoprire, e trovare accanto al libro che si era andati a cercare un altro libro, che non si era andati a cercare, ma che si rivela come fondamentale.

Maria Papova, su Brain Pickings, parla del libro di Nassim Nicholas TalebThe Black Swan: The Impact of the Highly Improbable. In questo saggio si cita anche Umberto Eco.

Lo scrittore Umberto Eco appartiene a quella piccola classe di studiosi che sono enciclopedici, perspicaci e mai noiosi. È il proprietario di una vasta biblioteca personale (contenente 30.000 libri), e separa i suoi ospiti in due categorie: quelli che reagiscono con “Wow, professor Eco, che biblioteca! Quanti di questi libri ha letto?” e gli altri – una sparuta minoranza – che coglie il punto che una biblioteca privata non è una ramificazione dell’Ego ma uno strumento di ricerca. I libri letti sono molto meno preziosi di quelli non letti. Una biblioteca dovrebbe contenere la maggior parte di quello che non sappiamo. Questa collezione di libri non letti possiamo chiamarla anti-biblioteca.

Le proprietà emergenti di questa anti-biblioteca le spiega con ironia lo stesso Umberto Eco nella lectio magistralis di Torino che ho citato prima:

Ogni tanto accade che un giorno prendiamo in mano uno di questi libri trascurati, incominciamo a leggiucchiarlo, e ci accorgiamo che sapevamo già tutto quel che diceva. Questo singolare fenomeno, di cui molti potranno testimoniare, ha solo tre spiegazioni ragionevoli.

La prima è che, avendo nel corso degli anni toccato varie volte quel libro, per spostarlo, spolverarlo, anche soltanto per scostarlo onde poterne afferrare un altro, qualcosa del suo sapere si è trasmesso, attraverso i nostri polpastrelli, al nostro cervello, e noi lo abbiamo letto tattilmente, come se fosse in alfabeto Braille. Io non credo ai fenomeni paranormali, ma in questo caso il fenomeno è normalissimo, certificato dall’esperienza quotidiana.

La seconda spiegazione è che non è vero che quel libro non lo abbiamo letto: ogni volta che lo si spostava vi si gettava uno sguardo, si apriva qualche pagina a caso, qualcosa nella grafica, nella consistenza della carta, nei colori, parlava di un’epoca, di un ambiente. E così, poco per volta, di quel libro se ne è assorbita gran parte.

La terza spiegazione è che mentre gli anni passavano leggevamo altri libri in cui si parlava anche di quello, così che senza rendercene conto abbiamo appreso che cosa dicesse (sia che si trattasse di un libro celebre, di cui tutti parlavano, sia che fosse un libro banale, dalle idee così comuni che le ritrovavamo continuamente altrove).

(Ultima modifica: 22 Aprile 2022)

Lo squillo dello spaziotempo

Il grande Albert Einstein continua ad avere ragione. Sempre più ragione. Anche a distanza di 101 anni (la sua Teoria della Relatività Generale è del 1915, quindi l’anno scorso ricorreva il centenario della sua formulazione: vi consiglio di procurarvi il numero speciale de Le Scienze di Novembre 2015, dedicato proprio al grande fisico tedesco).

L’annuncio è stato fatto solo ieri, ma il 14 settembre 2015 due osservatori hanno intercettato delle onde gravitazionali, confermando la predizione fatta dalla Teoria della Relatività Generale di Albert Einstein nel 1915.

Le onde si sono prodotte quando due buchi neri si sono fusi, generando un singolo, massiccio buco nero circa 1,3 miliardi di anni fa.

Secondo la relatività generale, una coppia di buchi neri che ruota su se stessa perderà energia attraverso l’emissione di onde gravitazionali, che tenderà ad aumentare fino alla collisione finale. Quest’ultima, in una frazione di secondo, a quasi metà della velocità della luce, formerà un buco nero massiccio, convertendo una parte della massa dei buchi neri di partenza in energia, proprio come dice la formula di Einstein E=mc². Questa energia viene emessa come una forte esplosione finale di onde gravitazionali. Sono proprio queste ultime che i rilevatori del Laser Interferometer Gravitational-wave Observatory (LIGO) hanno osservato.

La nuova scoperta del LIGO è la prima osservazione delle onde gravitazionali, ottenuta misurando le minuscole interferenze che le onde provocano nello spaziotempo passando attraverso la Terra.

La ricerca del LIGO è stata portata avanti dal LIGO Scientific Collaboration (LSC), un gruppo di più di 1.000 scienziati provenienti dalle università degli Stati Uniti e di altri 14 Paesi (tra cui l’Italia: anche l’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, la mia università, ha avuto un ruolo non secondario). Più di 90 università e istituti di ricerca sono stati coinvolti nello sviluppo della tecnologia del LSC e nell’analisi dei dati.

Kip Thorne, professore emerito di fisica teorica del Caltech (e consulente scientifico di Interstellar” di Christopher Nolan), ha dichiarato:

Con questa scoperta, gli esseri umani si stanno imbarcando in una meravigliosa nuova missione: il tentativo di esplorare il lato curvo dell’universo – oggetti e fenomeni che sono creati dallo spaziotempo curvo. La collissione di buchi neri e le onde gravitazionali sono i nostri primi bellissimi esempi.

Questa importante notizia ha suscitato molto entusiasmo, anche tra i non addetti ai lavori. È naturale che ci si lasci andare a voli pindarici. Infatti qualcuno ha chiesto a Kip Thorne se questo risultato ci avvicina ai viaggi nel tempo (il giornalista pensava a “Interstellar”?) e il fisico ha risposto così:

Sono sicuro che Albert Einstein lassù starà gongolando, perché su una cosa tutti i fisici del mondo sono d’accordo: questa potrebbe essere la scoperta più importante del nostro secolo. Soprattutto perché sarà la base per le ricerche future sull’origine e la struttura dell’Universo, costituito in gran parte (le stime dicono circa al 90 %) della sfuggente materia oscura.

È come se lo spaziotempo avesse voluto mandarci uno squillo. Uno squillo che ha continuato a risuonare per la durata incredibile di 1,3 miliardi di anni e che potete ascoltare qui:

Non masticate molto la fisica, avete perso il filo e il vostro cervello sta fumando? Niente paura. Ecco un video animato e sottotitolato in italiano (segnalato da Giorgio Taverniti) che spiega in maniera molto semplice cosa sono le onde gravitazionali:

(Credit IMG: New Scientist, Fonte: Futurity)

(Ultima modifica: 19 Marzo 2022)